Borgo sogno

di Vittorio Macioce, direttore artistico del Festival delle storie

Quando il mondo all’improvviso ti fa paura cerchi una via di fuga. L’istinto ti porta a mettere in discussione certezze consolidate. Bisogna immaginare il futuro. Da dove passa? È ancora lì, nel destino maestoso delle grandi città, nella vita carica di opportunità, nei luoghi dove la modernità lascia il segno, dove c’è lavoro, svago, divertimento, l’aristocrazia forse del sapere e l’oligarchia del potere che si tramanda di padre in figlio? Maledetto virus, maledetta pandemia, che svuota le piazze e le strade delle metropoli, rinserra gli usci dei palazzi, spegne le luci degli uffici e lascia le periferie senza un “non luogo” dove continuare a smarrirsi. La città di questi tempi assomiglia ai paesaggi metafisici di De Chirico.

È uno spazio bianco dove gli umani cercano un domani per strapparsi dalla pelle questa angoscia che ha sospeso il battere delle ore degli affanni quotidiani, il traffico di chi entra la mattina, con i figli da accompagnare in fretta a scuola, e quello del rientro da travet dopo le cinque. Periferia e centro, centro e periferia, come se non ci fosse altro a dividere il destino dei privilegiati dalle masse. Non ci sono alternative. Solo che adesso non c’è nulla e non resta che chiederti quando questo nulla passerà. Le città non moriranno, ma la loro forza gravitazionale potrebbe non essere più la stessa. Il contagio ti porta a vedere l’altro come un’insidia, il prossimo come una minaccia da cui stare lontano almeno un metro, nascondendo il volto con una maschera, però ti costringe anche a pensare a un’alternativa.

La città è l’unica scelta possibile? Immaginiamo un futuro improbabile.

Next Generation. L’Europa sta mettendo sul piatto una massa di denaro superiore al piano Marshall. Non sono gratis. Sono debiti sulle spalle delle prossime generazioni. E se una parte di queste risorse andassero a finanziare borghi e paesi? È un progetto che punta sull’anima dell’Italia, sulla sua storia, sull’identità rinascimentale. Non è solo però un discorso di radici e di bellezza. È pensare a un capitalismo leggero, sfruttando reti e imprese a alto lavoro tecnologico, che non trova casa solo nelle metropoli. Si parla tanto di decongestionare le metropoli. Per farlo devi rendere facile la scelta di vivere fuori dalle grandi città. Questo significa investire nelle infrastrutture e nel 5G. Non viviamo più in un sistema produttivo basato solo sul modello di fabbrica novecentesca. Vivere e lavorare nei borghi potrebbe essere conveniente. Solo che devi rendere tutto questo possibile. Ci servono soldi. I soldi adesso forse ci sono.

È anche l’occasione per mettere in sicurezza l’Appennino, dove si gioca a dadi con le viscere della madre terra. Non sai quando ci sarà il prossimo terremoto, ma sai che ci sarà. È già scritto. Ricostruire. Ridisegnare. Rivivere. Investire nei borghi è qualcosa che in Europa capiscono. Se lo aspettano. Avete la bellezza perché non la fate diventare un sistema? È un progetto che avrebbe una capacità di attrarre idee, simpatie e altri soldi. L’Italia piace quando rispetta il suo passato. L’Italia furba e accattona viene disprezzata. Un progetto per riqualificare il Rinascimento perduto è una grande opera che tutto il mondo vedrebbe con interesse.

Magari questo è solo un sogno.

È il sogno di chi vive in valli costellate da borghi dove il futuro sembra non passare mai. È lì che però l’Italia assomiglia alla luna di Astolfo, dove si radunano le cose che in altri luoghi sembrano perdute. È l’Italia dove ancora riesci a stupire il viaggiatore con ricette e prodotti che sono rimasti alla periferia del tempo e custoditi quasi per caso, per restare ancorato a quel sapore di mandorle e di visciole dove resiste un frammento della tua infanzia. Non datele per scontate queste valli. Una valle di borghi deve riconoscersi. Ci vuole tempo. Qualcuno con un po’ di cinismo dice che c’è voluta la crisi. Questa. Questa che ti ha messo con le spalle al muro e che ti fa paura. Perché fa paura. È così forse che abbiamo cominciato a guardarci intorno. E non importa se è soltanto un sogno.

L’azzardo è camminare su strade che non portano più verso il centro. Si può ricostruire camminando fuori pista? È una scommessa che ricorda il movimento medievale del monachesimo. È una fuga dal mondo per ritrovare il mondo. Ricostruire. Ricostruire un passato e un futuro. Dove? In alto. Sulla cima di un monte. Montecassino. Quello di Benedetto da Norcia è un progetto, una visione, un programma di vita. È un consiglio per mettere un po’ di ordine al caos. Non è un’utopia. È, scrive Benedetto, un punto di partenza. Quella Regola, vista con gli occhi del 2021, assomiglia a un software open source, un programma aperto, senza diritto d’autore, che ognuno può modificare e adattare alle proprie esigenze. Benedetto, che forse non era neppure prete, non crea un ordine rigido.

Ogni comunità si organizza come meglio crede e non deve per forza fare capo all’abazia madre.

La Regola viene così riformata e ogni volta si adatta ai tempi e ai luoghi. I benedettini diventano una confederazione. Cluny, che anticipa la vocazione francese al centralismo, è più gerarchica e rigida. È un centro di potere, magnificente e lussuoso. Ognuno comunque sceglie la propria strada. Austeri e spogli e tanto lavoro per i cistercensi. Solitudine per i camaldolesi e i silvestrini. Senso artistico per gli olivetani e i cassinesi. È un’Europa che all’interno della Regola si ritaglia un abito su misura. I benedettini ridisegnano la mappa del pensiero e lo fanno con una mossa laterale, spiazzante, come chi intuisce un corridoio invisibile oltre le macerie. Il lavoro degli amanuensi recupera la cultura classica e la mette in rete. Le innovazioni idrauliche e la rotazione delle colture strappano la storia e valgono come le rivoluzioni industriali o il capitalismo 4.0. E in più ci hanno regalato il pentagramma e lo champagne. Vi dice nulla il monaco Dom Perignon?